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Pubblichiamo ''Semo vintuno'', il racconto di Mira Carpineta

Ricordo di famiglia sull'eccidio nazista di Capistrello (L'Aquila), nel giugno 1944, con 33 martiri.

SEMO VINTUNO
di Mira Carpineta

Capistrello giugno 1944
C’era ancora qualche ora di luce e doveva sbrigarsi. Il pane e le sagnette con i fagioli erano pronte. Sistemò la callara nel canestro, avvolta nel panno della tovaglia, con il coperchio serrato per non far disperdere il calore. In un’altra mmotina, un altro grande strofinaccio, avvolse altre cibarie, altro pane, qualche tocco di formaggio, una pizza con le cipolle. Sistemò il tutto insieme, arrotolò un altro fazzolo e lo mise a cerchio sulla testa. Poi prese il canestro e se lo pose sul capo per uscire.
Con quel peso sulla testa attraversò la strada e si diresse verso la stazione e‘glio Rucetto.
Da diversi giorni ormai un commando tedesco in ritirata si era stanziato nel palazzo più grande della piazza. Lei si avvicinò al portone, il soldato di guardia la vide e annusò con desiderio i profumi che emanavano dal canestro e non la fermò. Lei entrò nella corte interna e un altro soldato le venne incontro per scortarla in una stanza che era stata adibita a cucina. Le tolse il canestro dalla testa e lo pose sul grande tavolo dove erano disposte altre cibarie. Il soldato sollevò il coperchio della callara e il vapore della minestra calda gli colpì le narici. Abbozzò un sorriso, richiuse, recuperò la tovaglia che avvolgeva la pentola e gliela gettò nel canestro. Diomira lo riprese, se lo sistemò di nuovo sulla testa e senza dire una parola si diresse verso l’uscita.
Allontanandosi dal comando tedesco si diresse verso la fine del paese. Non poteva tornare subito a casa e doveva sbrigarsi perché tra poco sarebbe scattato il coprifuoco e i tedeschi sparavano a tutto ciò che si muoveva.
Nella parte della montagna che scivolava verso la Valle Roveto, proprio nel punto in cui il declivio accompagnava il paese verso il pianoro, c’erano dei cunicoli. Alcune gallerie scavate nella roccia, memoria di storie lontane, che tutti i contadini e i pastori della montagna conoscevano bene. Quanto riparo avevano fornito a uomini e animali, in ogni tempo e per ogni necessità. Diomira si diresse verso queste grotte, mise il canestro sotto il braccio ed entrò in un cunicolo. C’era ancora un po’ di luce e sussurrò dei nomi: “Ndò, Luigì, Armandì…” Dal fondo più buio uscirono tre persone. I ragazzini gli corsero incontro. “Mà, si venuta, finarmente!” disse il più piccolo, Armandino, 11 anni.
“Si stata attenta?” – le chiese il marito Antonio. “Scine – rispose- statte tranquijo, non m’a venuto appresso nisciuno. I sordati m’oto dato quisto” e mostrò al marito un foglio, il lasciapassare che le avevano concesso per potersi recare al comando a portare da mangiare ai soldati. Ma lei non sapeva leggere, né scrivere. Allora Antonio le spiegò che quel foglio era importante perché le dava un po’ di libertà di movimento e che soprattutto doveva mostrarlo alle ronde di sorveglianza ogni volta che la fermavano.
“Questa è na fortuna – disse Antonio – cuscì te po’ move pe glio paese no poco de più. Che se dice?”
Mentre i bambini mangiavano lei e Antonio parlavano della situazione in paese. La ritirata dei tedeschi, nel 44, fu drammatica in tutta l’Italia e anche nella Marsica lasciò lutti atroci.
Dopo il bombardamento di Montecassino le truppe tedesche ripiegavano verso nord, attraverso i tratturi abruzzesi, mentre l’aviazione alleata sottoponeva quel tratto della montagna marsicana a continui bombardamenti. I pastori, per proteggere il bestiame, si trasferivano verso le montagne di Luco dei Marsi.
Il 4 giugno del 44, nel giorno della liberazione di Roma, sui pascoli vicini a Capistrello pastori e contadini furono rastrellati da tedeschi e fascisti e condotti verso la stazione. I tedeschi erano convinti che vi fossero tra loro partigiani e alleati che fornivano indicazioni sulla ritirata ai bombardieri e la giornata si concluse nel modo più atroce.
33 persone, tra cui 2 ragazzini di appena 13 e 14 anni vennero fucilati, alla Stazione di Capistrello davanti ad una buca lasciata da una bomba dove i corpi trovarono sommaria sepoltura. Un mese prima c’era stato un episodio altrettanto efferato: un ragazzo di 17 anni, accusato di partigianeria fu catturato, torturato e poi ucciso. Tutti ne rimasero sconvolti.
Da diverse settimane ormai, la paura di Antonio e Diomira per i loro figli e per i pericoli che correvano fintanto che i tedeschi rimanevano in paese, li aveva costretti alla scelta di separarsi: Antonio con i figli maschi si era nascosto in quelle grotte, che la montagna e la vegetazione avevano ingoiato nel corso dei secoli. Diomira e la figlia Annina invece, erano rimaste in paese, nella casa addossata al costone di roccia. La stessa casa che era sopravvissuta, miracolosamente, al terribile terremoto del 1915, quando in pochi minuti scomparvero città, paesi e migliaia di vite.
In quella stazione Diomira, appena 15enne, si era recata ogni giorno, dopo la sciagura, ad aspettare gli aiuti militari e nella casa sulla roccia aveva offerto riparo ai sopravvissuti. E adesso quella stazione era diventata la tomba di 33 capistrellani senza colpe, se non quella di voler sopravvivere alla follia umana della seconda guerra mondiale.
Le notizie sulla guerra non erano confortanti. I tedeschi, non più alleati, sfogavano la ferocia della precipitosa ritirata su gente inerme, contadini, pastori, poveri braccianti già segnati da una vita ostile in una natura anch’essa ostile.
“Dovemo resiste. Appena se ne vanno potete revenì – diceva Diomira – Ma vu non ve facete vedè. Io cerco de revenì addomà. Me raccommanno vagliù. Sentete patreto. Me raccommanno figli mè.”
Un abbraccio veloce e poi raccolse il canestro e sgattaiolò verso il paese.
Era quasi notte. Tornò al comando per riprendere le pentole vuote che gli sarebbero servite il giorno dopo e con il lasciapassare in mano si avviò verso casa.
Non riusciva a dormire. Erano tanti giorni ormai che sfidavano la sorte e benché l’istinto la guidasse nelle azioni, le giornate sembravano interminabili. Soprattutto dopo l’eccidio la vita in paese era diventata ancora più difficile. I pochi uomini rimasti venivano mandati con la forza a scavare trincee, a bonificare strade dalle bombe sganciate dagli aerei americani. Quei “cafoni” descritti da Ignazio Silone nei suoi libri come quelli che venivano in fondo, dopo i cani e gli animali del principe Torlonia, erano loro. Gente che rischiava la vita per proteggere qualche capo di bestiame o che raschiava i campi della valle e dei Piani Palentini per combattere l’eterna guerra contro la fame e la miseria in una terra aspra e bellissima.
Si fece di nuovo giorno e si ricominciava, come sempre, dall’alba. Diomira uscì di casa per andare a raccogliere qualche verdura e qualche frutto. Mentre attraversava la strada, una camionetta le passo vicino a velocità sostenuta. Lei fece appena in tempo a scansarsi. Allora decise di andare verso il paese. Si accorse subito che stava succedendo qualcosa. La paura le bloccò il respiro per qualche secondo. La mente correva sempre alla stazione. Altre macchine venivano verso di lei. Tutte di corsa. Davanti al comando vide soldati caricare un camion e altri che correvano avanti e indietro con sacchi sulle spalle. Anche alcune donne erano in strada. Lei riconobbe Marietta, la moglie del mugnaio e gli chiese che cosa stesse succedendo. “E’ da mantemà che stanno a fa tutto sto annanzi e rrete. Volesse Dio che se ‘nne vanno!” rispose Marietta.
Diomira decise di andare verso la chiesa. Il prete, forse, poteva sapere qualcosa in più. Lo trovò inginocchiato davanti all’altare che pregava. Si avvicinò timorosa ma decisa: “Donn’Artù, perdoname ma sapissi tu che sta succedenne? Che oto arrestato che cun atro?” Don Arturo si girò sussultando. “Diomì che sta a ddì?” “Donn’Artù so visto i tedeschi con le machine, le camionette che scappèane. Addò vanno?“ incalzò lei. “Diomì non saccio niente…”. Non finì la frase don Arturo che la chiesa si popolò. Altre persone erano entrate con lo stesso stupore in viso misto a paura. E si guardavano l’un l’altro interrogandosi con gli sguardi. Don Arturo li guardò e si avviò verso l’uscita, sul sagrato. Davanti alla stazione i movimenti continuavano concitati. Ordini in tedesco e soldati che correvano dappertutto. Diomira fu presa dall’angoscia. Doveva correre dai suoi figli, avvertirli del pericolo. Insomma doveva fare qualcosa. Tornò a casa. Prese un po’ d’acqua e qualche pezzo di pane.
Li avvolse in un panno e se lo annodò alla vita. La figlia la guardava con aria interrogativa. “Né sta succedenne checcosa. Tengo da ji agli vagliuni. Tu va acchè Richetta e aspettame la. Me raccommanno, non t’allontanà”. Usci di nuovo. La piazza della stazione si era improvvisamente svuotata. Sembrava che fossero scappati tutti. Mentre si incamminava verso il nascondiglio vide qualcuno che correva verso il negozio di Carminuccio. Era il figlio di Richetta. Voleva fermarlo ma aveva paura di perdere tempo. Però aveva bisogno di sapere. Lo chiamò. Il ragazzo la vide e le si avvicinò. “Vagliò addò va?”- gli chiese. “Senne vanno Diomì, senne vanno!” gli disse il ragazzo ansimando per la corsa. “i tedeschi senne vanno? – chiese - e tu comme lo sa?” “ji steva alla posta e poco fa è arrivato no telegramma pe Don Gaetano e m’oto ditto de portarcelo. E quando soglio portato a Don Gaetano isso ma dato na pacca ‘ncapo e m’ha ditto che la guerra a Capistreglio steva pe finì”.
Diomira si rincuorò un poco, ma accelerò il passo verso il nascondiglio dei suoi figli. Doveva vederli e assicurarsi che stessero bene. Come sempre cercò di non farsi vedere da nessuno, fece un giro più lungo, attraversò il bosco, risalì il fiume. Se qualcuno l’avesse vista poteva dire che andava a lavare i panni. Alla fine raggiunse la sua meta. Si addentrò nel cunicolo e sussurrò i nomi. Non si faceva avanti nessuno e il cuore per un attimo le si fermò. Poi nel buio dal fondo scorse il marito: “Diomì, si tu? Che succede?” Lei lo chiamò sempre sussurrando: “Ndò, so jio. I vagliuni addò stanno?”
“Diomì che succede?” insisteva Antonio. “Senne stanno a scappà. - rispose lei - I tedeschi, senne vanno. Maddomà oto pigliato tutto e senne stanno jenne. Don Gaetano dice che a Capistreglio la guerra è finita”. Antonio l’abbracciò stretta e chiamò i ragazzi: “vagliù potete scì”. Si abbracciarono e rimasero in silenzio per qualche minuto. Lei si sciolse il fagotto dalla vita e diede da mangiare ai figli. Mentre li guardava e li accarezzava con gli occhi e le mani, il marito le disse: “Diomì revà a casa mo. Io e i vagliuni remanemo n’atro giorno ecco. Per sicurezza. Vedemo che succede oggi. Addomà quando revè vedemo se è sicuro a tornà a casa. Che dici?” “Ndò io tengo paura. Se qualche soldato va girenne e ve trova, proprio mo…” - “Allora facemo coscì: tu mo revà a casa. Massera, pello scuro ci vedemo alla chiesa. Avvisa Don Arturo. “- “va bene”. Li abbracciò un’altra volta e si avviò. Intanto al paese erano quasi tutti per la strada che parlavano dell’accaduto. Avevano visto le manovre dei soldati dalle prime ore del mattino e avevano aspettato con il fiato sospeso temendo un’altra atroce rappresaglia. Adesso invece quella strana calma li lasciava storditi. Ognuno si affannava a cercare notizie, conferme o smentite. Il figlio di Richetta ripeteva la storia del telegramma di Don Gaetano ma non riuscivano a rincuorarsi. Le ore passavano e nel pomeriggio Don Arturo suonò le campane con più forza del solito. Non era ancora l’ora dei vespri ma la gente uscì di casa lo stesso e si avviò verso la chiesa. Don Arturo li aspettava davanti all’altare: “Figli mè, ve so chiamato per darve na bbona nova. I tedeschi senne so jiti pe ddavero. Oggi la radio ha ditto che gli americani so entrati a Roma e che i tedeschi scappano verso nord. La guerra non è finita ancora, ma se Dio vuole ste bestie oto fenito de fa danni ecco a Capistreglio. So parlato puro con don Gaetano. Mo dovemo solo pregà che finisce prima possibile.” Tutti si sentirono sollevati e iniziarono a recitare un rosario. Mentre sgranava le avemaria Diomira pensò ai suoi ragazzi e a suo marito e fu contenta che Antonio avesse deciso di raggiungerla proprio alla chiesa.
La preghiera diventò una veglia ai piedi della statua di Sant’Antonio mentre la notte avvolgeva quel giorno sospeso nell’attesa di qualcosa di indefinito. Ad un tratto qualcuno entrò in chiesa.
Poi un altro. E un altro ancora. La notizia della fuga dei tedeschi si era diffusa e tutti quelli che si erano rifugiati sui monti stavano tornando a casa. Anche Antonio, con i suoi ragazzi si fece avanti nel buio. Don Arturo accoglieva e benediva tutti, mentre si riunivano alle famiglie. Il figlio di Richetta gli si avvicinò e lui gli scompigliò i capelli dicendo: -scì beneditto vagliò- il ragazzo sorridendo gli chiese: - Donn’Artù, ma allora che dici, semo vinti?! -
-Semo vintuno, ci stengo puro io! - aggiunse gridando l’ultimo arrivato.


Mira Carpineta, nata a Teramo il 6 giugno 1964, vent'anni esatti dopo lo sbarco in Normandia. Ho studiato ragioneria e informatica diplomandomi all'Ist. Tec. Comi di Teramo nel lontano 1983. Dopo qualche anno ho avuto nostalgia degli studi e ho ricominciato dall'Università di Teramo, facoltà di Scienze della Comunicazione, dove mi sono laureata in giornalismo con una tesi sulla stampa cattolica e il berlusconismo studiando il caso FAMIGLIA CRISTIANA. Sono giornalista pubblicista iscritta all'ODG Abruzzo, ho scritto per diverse testate locali e dal 2013 al 2015 sono stata direttore responsabile di un mensile e un giornale on line PrimaPagina. La storia che racconto appartiene al vissuto della mia famiglia integrata dalla mia fantasia. Questo è solo uno dei tanti racconti della mia straordinaria nonna Diomira, di cui porto il nome.


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