L'AQUILA - Pubblichiamo il messaggio per il Natale alla comunità eclesiale e civile del cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo de L'Aquila. Ecco il testo:
L’evento del Natale si ripete, per noi. Anche oggi il Signore “viene”, per donarci la Luce del Vangelo e offrirci la gioia di una Vita nuova. Gesù entra nella nostra storia, per trasformarla con la Sua grazia. Assume, nella sua umanità, l’esistenza di tutti e di ciascuno: diventa nostro contemporaneo e abita le nostre vicende: liete e dolorose.
È Lui che ci cerca per primo: e si fa trovare se andiamo dove Lui ci aspetta. Ciò che è accaduto “allora” può ri-attuarsi “adesso”: in questa prospettiva propongo una riflessione sul brano del Vangelo di Luca: 2, 2-20, nella speranza che aiuti a vivere, con efficacia crescente, il Natale della nostra epoca.
Il racconto biblico ci presenta la storia di una giovane famiglia ebrea, composta da Giuseppe e Maria, che, per adempiere al censimento indetto dall’imperatore Augusto, si reca a Betlemme e si mette alla trepida ricerca di una dimora, poiché Maria, avendo compiuto il periodo di gravidanza, stava per mettere alla luce il Figlio (il Verbo fatto carne!) che portava in grembo. Il testo riferisce una circostanza che suscita profonda tristezza e indignazione: questa giovane Madre «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (v. 7).
Non sembra che questa grave mancanza di ospitalità sia da ricondurre ad un atteggiamento preventivamente ostile degli abitanti di Betlemme: essi hanno opposto un rifiuto alla richiesta di accoglienza perché non volevano che a casa loro entrasse gente scomoda e bisognosa di aiuto. Forse avranno pensato: “meglio negare l’ingresso a questi sconosciuti piuttosto che mettere a rischio la nostra tranquillità e il nostro consolidato stile di vita”. Ma mettendosi al riparo dietro abitudini egoistiche si sono privati di una grazia straordinaria: la visita del Dio-fatto-uomo, che avrebbe certamente offerto sovrabbondanti favori e benedizioni.
Gesù, nel Vangelo, afferma che qualunque cosa avremo fatto al più piccolo dei suoi fratelli, è considerata fatta a Lui (cfr. Mt 5, 31-46). Anche noi dobbiamo vigilare per non essere contaminati dalla “sindrome della porta chiusa”, che ci impedisce di fare posto al Signore che chiede di essere aiutato nel prossimo bisognoso. Ma la indisponibilità al soccorso ci barrica nei nostri angusti privilegi e ci sottrae i doni preziosi che Dio concede a coloro che si aprono alla accoglienza. Rimaniamo così prigionieri delle nostre carenze morali, di miopie spirituali e precarietà esistenziali. Secondo il Vangelo dare è la condizione per ricevere (cfr. Lc 7,38): anzi, la Provvidenza ci ricompensa con una misura molto più grande rispetto a quanto abbiamo elargito (nella “economia” del Regno di Dio vale il premio del “centuplo” cfr. Mt 19,29). Perciò è sempre conveniente essere generosi nei confronti di quanti soffrono la povertà, nelle versioni antiche e nuove. Spesso domandiamo al Signore e non otteniamo perché le grazie richieste, pur essendo concesse ed “inviate”, non arrivano a “destinazione” poiché trovano l’accesso alla nostra anima ostruito da sbarramenti autoreferenziali: così, non potendo essere ricevute, ritornano al Mittente.
La scarsa propensione del cuore verso gli altri danneggia anzitutto noi stessi. Capita, per questo, che restiamo imbrigliati nella lamentela e nella audodeplorazione, avvolti dalla tristezza o intossicati dalla rabbia, per situazioni avverse che avremmo potuto evitare o superare con un “sovrappiù” di amore.
Il testo di Luca prosegue la sua narrazione: «C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce» (vv. 8-9)
A differenza degli abitanti di Betlemme, che se ne stanno “al coperto” nelle loro abitazioni, i pastori “pernottano all’aperto”: sono privi di pareti protettive e del riparo di un tetto; quindi esposti alle intemperie e ai rischi di aggressioni da parte di briganti o animali selvatici. Vivono una condizione di indigenza e vulnerabilità; rispetto ai loro concittadini appaiono deprivati di un ambiente confortevole: ma proprio in questa precarietà si presenta l’angelo e sono avvolti da una luce che viene dall’Alto. Così, la loro condizione di “svantaggio” diventa lo spazio in cui Dio si manifesta.
«Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: “non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”» (vv. 10-11).
Proprio a loro, socialmente “marginali” e di basso rango, viene consegnato il messaggio più importante nella storia dell’umanità, fonte di immensa esultanza: la redenzione promessa da Dio, e costantemente proclamata dai profeti nel corso dei secoli, si è compiuta. È nato il Salvatore: Colui che riscatta il popolo credente dal male e lo rende capace di vivere nel bene, consentendogli di accedere ai doni infiniti di Dio.
Anche a noi può capitare che - proprio nei tratti “desertici” della nostra esistenza, attraversati dalla sofferenza e segnati dalla debolezza - il Signore ci viene incontro offrendoci la soluzione e una pienezza di vita imprevista. I tempi dell’angoscia e gli urti destabilizzanti delle avversità diventano così occasioni per l’arrivo di novità trasformanti e migliorative: che inaugurano periodi animati da soddisfazione e gioia profonda.
L’annuncio che la Misericordia di Dio si è chinata sulle nostre vicende raggiunge anche noi - in modo ritornante - attraverso l’intervento di qualche “angelo”: cioè per mezzo di persone o eventi che ci comunicano un messaggio proveniente dal Cielo. In questa prospettiva (e in senso analogico) è da considerare “angelo” sia la Comunità ecclesiale come ogni altra figura “profetica” (costituita da sacerdoti, parenti, amici, fatti accaduti..) a cui è affidato il compito di svolgere, a nostro vantaggio, una “missione” redentiva: portatrice di verità e di bene. Attraverso i saggi consigli e la sollecita prossimità di fratelli e sorelle che ci amano è sempre Dio che ci parla e si pone a nostro fianco. È da sottolineare che proprio nei momenti di “silenzio”, in cui ci sentiamo “in crisi” e privi di parole, la voce dell’Angelo può risuonare più chiara e più forte, proprio perché mancano le interferenze di pensieri dissonanti e di sentimenti sfasati, lontani dal Vangelo. Nel nostro pellegrinaggio nel tempo verso L’Eterno, è essenziale “riconoscere” l’“angelo” e prendere sul serio ciò che ci dice, per non perderci nei nostri labirinti interiori e nelle false suggestioni del mondo.
«Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (v. 12).
I Pastori sono invitati a mettersi in cammino, per andare a vedere il Messia, l’Atteso dalle genti, ma certamente saranno stati colti alla sprovvista dalle imprevedibili parole dell’Angelo. Si sarebbero aspettati di incontrare il “Salvatore” in una dimora sontuosa, degna di un grande Sovrano; invece si sentono dire che avrebbero trovato un «bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia»: che il “Cristo Signore” abbia preso dimora in una stalla deve essere sembrata una notizia quasi provocatoria e inaccettabile.
Anche nel nostro caso i messaggeri che, in nome di Dio, ci comunicano la Sua volontà
possono delineare progetti e itinerari non messi in preventivo: ma occorre lasciarsi “sorprendere” dal Signore, che va al di là dei nostri schemi. L’annunzio - che ci può arrivare dalla nostra coscienza come da persone esterne - se è autentico, non è mai vago ma indica sempre una concreta direzione di marcia. Ci viene sempre data una “mappa” esistenziale del percorso da compiere per giungere puntuali all’appuntamento con il Signore, che apre la “via di uscita” dai problemi e spalanca prospettive che cambiano in positivo l’avvenire. La risposta, che abbiamo aspettato e invocato, spesso è “deposta” in situazioni “umili” e lì va cercata: nell’ascolto di alcuni “passi” della Bibbia, in incontri provvidenziali e in azioni, animate dalla carità che «tutto copre, crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7). In particolare, l’amore-che-sa-servire e ci proietta verso le “periferie esistenziali” (vicine e lontane), costituisce di frequente un “ponte” evangelico che ci consente di superare ostacoli, prima invalicabili e di scoprire, in un terreno che non avremmo mai immaginato, il “tesoro nascosto” che invano avevamo cercato altrove.
«E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”» (vv. 13-14).
La lieta notizia trasmessa dall’angelo si arricchisce con una avvincente promessa: Colui-che-viene, come Salvatore, darà gloria a Dio e a coloro che lo accolgono porterà la pace. Il segreto - affinché questo prodigio si realizzi - sta nel lasciarsi abitare dall’Amore, per imparare ad amare come figli adottivi di Dio (cfr. Ef 1,4-5): perché solo diventando un Popolo rinnovato dalla carità si potrà costruire un mondo riconciliato, trasformato in casa della concordia fraterna e di giustizia integrale.
La schiera delle creature celesti, che si aggiunge all’angelo, conferma, con il canto della lode, che il Padre onnipotente, con infinita tenerezza, si prende cura degli uomini, e, affrancandoli dal peccato, li chiama alla comunione con Lui e tra di loro.
«Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia» (vv.15-16)
La reazione dei Pastori al lieto annuncio dell’Angelo è cadenzata da due verbi centrali: “andiamo” e “vediamo”. La loro risposta è pronta, intera e concreta: per questo “trovano” il Signore. Questa “strategia”, sapiente e operativa, è centrale anche per noi. Quando - attraverso una ispirazione del cuore, un sapiente consiglio o un evento propizio - lo Spirito Santo ci indica “dove” e “come” fare-Natale, occorre mettersi in movimento “senza indugio” e con sollecitudine fattiva. È questo “sì” totale, eco dell’Amen di Maria, che consente a Dio di fare in noi e attraverso noi “grandi cose” (cfr. Lc 1,49)
In particolare, occorre chiedere luce speciale e larga dedizione per “trovare” Gesù nella Parola, nella Eucaristia e nella Comunità ecclesiale (cfr. Mt 18,20) come anche riconoscere e aiutare il Signore nei sofferenti e nei poveri.
«E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro» (vv. 17-20).
Dio mantiene le sue promesse: fa ciò che dice. I Pastori, proprio perché sono stati ubbidienti e si sono recati dove erano stati invitati ad andare, fanno “esperienza di salvezza” (che non è solo spirituale ma anche psicologica e relazionale). Rientrano nel loro ambiente, ma non come erano partiti: sono pieni di gioia e glorificano Dio per l’immenso “sovrappiù” che hanno ricevuto rispetto alle loro aspettative: religiose e umane. Per questo diventano “testimoni” convinti: non possono trattenere per loro le opere di Dio che li ha colmati di lieto stupore e di ardente gratitudine. Riferiscono ciò che è accaduto, perché anche altri possano diventare partecipi delle stesse meraviglie. Proprio loro, i “poveri” di Betlemme, sono resi custodi e missionari di una infinita “ricchezza”: la vocazione a entrare nella stessa Famiglia di Dio ed essere costituiti suoi “eredi” (cfr. Rm 8,16-17).
La lezione di vita che ci è data dai Pastori deve essere “esemplare” e attuale anche nel nostro tempo. Per “fare-Natale” bisogna lasciare il primo posto a Gesù che “bussa” alla nostra porta (cfr. Ap 3,20) ma anche offrire al mondo in cui viviamo l’esperienza festosa e solenne dell’incontro con il Figlio di Dio-fatto-uomo, venuto “tra” noi e “per” noi.
Purtroppo, con amara apprensione, constatiamo che i nostri giorni sono lacerati dal dramma di guerre che seminano distruzioni e morte, in territori vicini e lontani. Da credenti non possiamo rassegnarci o restare indifferenti: la celebrazione del Natale ci abilita e ci obbliga ad essere “costruttori di pace”, anzitutto con la preghiera perseverante e corale, ma anche attraverso l’impegno a “fare pace”: con noi stessi, con gli altri e nelle comunità in cui siamo inseriti. Ogni tassello di riconciliazione contribuisce a comporre il grande mosaico della pace, a livello locale e universale.
Maria, che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19) ci aiuti ad aprire “ciò che siamo” ed “ciò che abbiamo” al Vangelo del Natale, e ci renda instancabili e coinvolgenti “artigiani” di solidarietà e di liberante concordia.
Con un grande abbraccio, auguro a tutti e a ciascuno un periodo natalizio ricco di serenità condivisa e di operosa speranza cristiana.
Giuseppe Card. Petrocchi
Arcivescovo Metropolita di L’Aquila
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