Il quotidiano “Avvenire” lo scorso 16 gennaio ha riportato un articolo, a firma di Danilo Poggio, sull’intento del Ministero della Sanità di dare la gratuità dei test prenatali non invasivi a tutte le gravide. L’Associazione Italiana dei Ginecologi e Ostetrici Cattolici (AIGOC) ritiene che l’uso di questi test rischia di far imboccare vie eugenetiche al nostro Paese.
Poiché siamo in epoca di Coronavirus, che ci costringe a stare a case, possiamo fare qualche riflessione su questo argomento.
La Diagnosi Prenatale Non Invasiva (DPNI) nasce negli anni ‘80 in Inghilterra perché il Governo Inglese, volendo ridurre il numero di nascite di bambini con sindrome di Down (SD), decide di offrire la gratuità dell’amniocentesi alle gravide con età maggiore di 35 anni, ritenendole a maggior rischio di partorire bimbi con trisomia 21. Dopo 3 anni di applicazione della legge, il Governo Inglese scopre che il sistema è capace di diagnosticare solo il 30-35% di feti con SD. Poiché i costi del sistema sono superiori ai vantaggi, incarica lo statistico Dr. Wald a mettere a punto un test che, a parità di costi con il sistema precedente, sia in grado di diagnosticare almeno il 70% di gravidanze con SD. Nascono così i test sierologici Bitest, Tritest e in seguito altri test sempre più efficaci nell’ individuare le gravidanze a rischio per trisomia 21.
Ho lavorato in questo campo per 25 anni analizzando decine di migliaia di gravide. L’ultimo test sierologico messo a punto dal mio gruppo nel 2012, presso il Servizio di Genetica Medica del Policlinico di Chieti, è stato il test Contingente, capace di diagnosticare il 97% di Down con il 3% di falsi positivi e 1 falso negativo ogni 12.500 gravide analizzate. Il costo del test è un ticket di 47 euro, se la gravida non ha l’esenzione. Più recentemente è stato messo in commercio il test del DNA fetale da sangue materno. La specificità di quest’analisi per la SD è pari al 99% ma la sua capacità di individuare gravidanze a rischio non è così superiore a quella del test Contingente mentre i costi sono ingenti. Tutti questi test non sono diagnostici ma di screening, cioè servono a selezionare, in modo più efficace dell’età materna, le gravide ad aumentato rischio per la SD. Queste poi possono, se lo vogliono, confermare il sospetto, sottoponendosi ad un test diagnostico quali la villocentesi o l’amniocentesi, con un rischio di abortire pari allo 0,5-1%.
Ho iniziato ad occuparmi di diagnosi prenatale non invasiva (DPNI) nel 1995, convinto che l’uso di questi test, se ben applicati, consentissero di ridurre il numero delle analisi diagnostiche invasive e di conseguenza di risparmiare un numero di bambini sani. Nelle numerose pubblicazioni, fatte sulle più prestigiose riviste di diagnosi prenatale, ho sempre sostenuto l’opportunità che tutte le gravide si sottoponessero a questi test. Infatti le DPNI non servono solo ad individuare le gravidanze a rischio per la trisomia 21 ma anche per segnalare altre patologie fetali, sulle quali si potrà intervenire precocemente in epoca perinatale, e possibili gravi complicanze materne, che si potrebbero prevenire o trattare, come la eclampsia. In un ultimo lavoro pubblicato nel 2019 su European Journal of Obstetrics and Gynecology, su un campione di 25.000 gravide, abbiamo dimostrato che con il test Contingente è possibile ridurre le indagini invasive per più del 90% perché la selezione delle gravide è più accurata rispetto alla sola età materna. Le gravide con test positivo potranno, se lo vorranno, accedere all’indagine invasiva. Se l’esito finale sarà la diagnosi di trisomia 21, la gravida potrà ricorrere, in accordo alla legge 194 del 1978, all’interruzione di gravidanza. Pertanto la DPNI non favorisce l’eugenetica, se mai questa è favorita dalla legge sull’aborto, voluta dai cittadini italiani. Io non condivido il comportamento dei Paesi che, invece di tutelare le persone più deboli, hanno consentito e consentono di eliminarle “sic et simpliciter” a seguito di pressioni politiche e di lobby, che si sono ritenute e si ritengono progressiste e che non sono certamente pro vita. Ma questo è un problema diverso, di organizzazione sociale, di cultura, di principi etico-morali e di sensibilità di un popolo che nulla hanno a che vedere con la DPNI.
Giandomenico Palka
Prof. Ordinario di Genetica Medica
Università G. d’Annunzio Chieti-Pescara
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