Sistematica, trasversale, specifica, culturalmente radicata, un fenomeno endemico: i dati lo
confermano in ogni Paese, Italia compresa.
La violenza di genere è una violazione dei diritti umani tra le più diffuse al mondo: lo
dichiara la Convenzione di Istanbul, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio
d'Europa nel 2011 e recepita dall’Italia nel 2013, che condanna «ogni forma di violenza
sulle donne e la violenza domestica» e riconosce come il raggiungimento dell’uguaglianza
sia un elemento chiave per prevenire la violenza.
La violenza di genere non è un problema delle donne e non solo alle donne spetta
occuparsene, discuterne, trovare soluzioni. Un paese minato da una continua e persistente
violazione dei diritti umani non può considerarsi “civile”.
Impegno comune deve essere eliminare ogni radice culturale fonte di disparità, stereotipi e
pregiudizi che, direttamente e indirettamente, producono un’asimmetria di genere nel
godimento dei diritti reali.
La Convenzione di Istanbul, insiste sulla prevenzione e sull’educazione. Chiarisce quanto
l’elemento culturale sia fondamentale e assegna all’informazione un ruolo specifico
richiamandola alle proprie responsabilità (art.17).
Il diritto di cronaca non può trasformarsi in un abuso. “Ogni giornalista è tenuto al “rispetto
della verità sostanziale dei fatti”. Non deve cadere in morbose descrizioni o indulgere in
dettagli superflui, violando norme deontologiche e trasformando l’informazione in
sensazionalismo.
Noi, giornaliste e giornalisti firmatari del Manifesto, ci impegniamo per una
informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle
sue implicazioni culturali, sociali, giuridiche. La descrizione della realtà nel suo complesso,
al di fuori di stereotipi e pregiudizi, è il primo passo per un profondo cambiamento culturale
della società e per il raggiungimento di una reale parità.
Pertanto riteniamo prioritario:
1. inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato
anche nei casi di violenza sulle donne e i minori;
2. adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e
assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate;
3. adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche
istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale,
sociale, culturale;
4. attuare la “par condicio di genere” nei talk show e nei programmi di informazione,
ampliando quanto già raccomandato dall’Agcom;
5. utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto
donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”: fisica,
psicologica, economica, giuridica, culturale;
6. sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano “violenze di serie A e
di serie B” in relazione a chi sia la vittima e chi il carnefice;
7. illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di
prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere come
raccomandato dalla comunità LGBT;
8. mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla
violenza e dare la parola anche a chi opera a loro sostegno;
9. evitare ogni forma di sfruttamento a fini “commerciali” (più copie, più clic, maggiori
ascolti) della violenza sulle le donne;
10. nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitare:
a) espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o
svalutative dell’identità e della dignità femminili;
b) termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a
crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;
c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale”
o “oggetto del desiderio”;
d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando
la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e
così via.
d) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece
dalla vittima nel rispetto della sua persona
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